Il tribunale di Roma, con un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. emesso il 29.05.2020, riconosce il diritto alla riduzione del canone d’affitto a seguito della ridotta possibilità di utilizzo dell’azienda affittata a causa delle disposizioni dettate per fronteggiare l’emergenza epidemiologica del Covid-19.
Nel mese di Aprile 2020, una società che aveva stipulato un contratto di affitto di ramo d’azienda sito in un centro commerciale ed avente ad oggetto la vendita al dettaglio di articoli di pelletteria ricorreva in via d’urgenza al tribunale di Roma perché “a cagione della grave situazione epidemiologica in essere, numerosissime imprese operanti sul territorio italiano, tra le quali la ricorrente, erano state costrette a sospendere l’esercizio delle proprie attività commerciali a far data dall’11 marzo 2020 (art. 1, comma 1, n. 1, DPCM 11.03.2020)”. La ricorrente chiedeva la sospensione dei termini di pagamento dei canoni e delle altre somme dovute. A sostegno della domanda, l’affittuaria faceva valere l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, quantomeno temporanea, vista l’impossibilità di usufruire dei beni e dei locali che facevano parte del ramo d’azienda affittato; l’eccessiva onerosità della prestazione dovuta, in relazione ad una controprestazione (quella dell’affittante) di cui non poteva godere e, da ultimo, il ricorso al canone della buona fede che avrebbe dovuto condurre ad una rivalutazione complessiva delle obbligazioni assunte dalle parti.
Si costitutiva in giudizio la resistente lamentando l’infondatezza della domanda.
Il tribunale, nell’affrontare la questione, ricorda che per l’adozione delle misure d’urgenza è necessaria la sussistenza di due requisiti: il fumus boni iuris, ossia la verosimile sussistenza del diritto, e il periculum in mora, ossia la possibilità di un pregiudizio irreparabile nel caso in cui si dovessero aspettare i tempi di un giudizio ordinario. Il tribunale ritiene sussistere il diritto, ma non il pericolo e, per tale ragione, rigetta il ricorso. Infatti, la ricorrente, oltre al canone dei mesi del c.d. lockdown, era debitrice di somme ingenti e di gran lunga superiori al canone di affitto. L’affittuaria non avrebbe potuto subire un pregiudizio irreparabile dalla mancata concessione del provvedimento richiesto e che, di conseguenza, avrebbe dovuto chiedere in via ordinaria.
Ma è in punto di diritto che l’ordinanza assume profili di grande interesse.
Il tribunale, innanzitutto, osserva come la domanda di sospensione non trovi fondamento né in alcuna norma di carattere generale né nelle regole speciali dettate in punto di emergenza da Covid-19.
Ugualmente, seppure suggestive, non possono trovare applicazione alcune delle argomentazioni giuridiche svolte dal ricorrente. Non è invocabile il principio di buona fede, che non può spingersi sino ad esigere un apprezzabile sacrificio a carico della controparte, e non può trovare applicazione l’art. 1467 c.c. in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, che è incompatibile con la conservazione del contratto, conducendo necessariamente alla risoluzione del negozio giuridico.
Può, al contrario, trovare applicazione, ma con gli opportuni correttivi, l’eccepita impossibilità della prestazione, intesa come “impossibilità di utilizzare la prestazione contrattuale dovuta dalla resistente e specificamente … usufruire non solo dei locali presso cui l’attività aziendale viene svolta, ma di tutto il complesso di beni che del ramo di azienda fanno parte”.
La soluzione, ad avviso del tribunale di Roma, risiede nell’applicazione congiunta dell’art. 1256 c.c. (impossibilità temporanea) e dell’art. 1464 c.c. (impossibilità parziale). Nel caso trattato, infatti, ricorrerebbe una ipotesi di impossibilità della prestazione allo stesso tempo parziale (perché limitata alla sola possibilità di effettuare la vendita al dettaglio nel negozio) e temporanea (perché legata alle misure anti-covid).
“Le conseguenze di tale vicenda sul contratto – ferma la circostanza che, come già osservato, alcuna delle parti ha manifestato la volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale – non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea (che comporterebbe il completo venir meno del correlato obbligo di corrispondere la controprestazione) né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex art. 1464 c.c. una riduzione parimenti definitiva del canone): trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull’obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex art. 1464 c.c., una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita (nel senso di porre nuovamente a disposizione della ricorrente un ramo d’azienda utilizzabile secondo la destinazione di luogo di vendita al dettaglio prevista dal regolamento contrattuale, come poi accaduto a far data dal 18 maggio 2020). In conclusione, si ritiene che avendo la resistente potuto eseguire (pur senza colpa, ma per factum principis) dall’11 marzo al 18 maggio 2020 una prestazione solo parzialmente conforme al regolamento contrattuale, la ricorrente abbia diritto ex art. 1464 c.c. ad una riduzione del canone limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale, riduzione da operarsi, nella sua determinazione quantitativa, avuto riguardo: a) alla sopravvissuta possibilità di utilizzazione del ramo d’azienda nella più limitata funzione di ricovero delle merci, correlata al diritto di uso dei locali; b) al fatto che il ramo d’azienda è pur sempre rimasto nella materiale disponibilità della ricorrente”.
Fatte queste premesse, il tribunale ritiene congrua una riduzione del canone nella misura del 70%, riduzione che, all’atto pratico, non viene poi operata in via d’urgenza mancando, come già detto, il requisito del pericolo nel ritardo.